giovedì 27 aprile 2017

Un italiano inventa il Pony Sharing: risparmi sulle consegne e guadagni viaggiando

Jasa presenta la sua startup al Web Summit di Lisbona nel 2016
Tutto è iniziato con la dolorosa estrazione di un dente del giudizio. Era il 2014 e Nivi Jasa si trovava a Istanbul dove lavorava come graphic designer. Per calmare il dolore aveva bisogno del suo rimedio omeopatico di fiducia ma era impossibile reperirlo in Turchia. L’unica opzione era che un amico o un famigliare glielo portasse dall’Italia. È allora che Nivi, nato a Trieste da genitori Albanesi immigrati negli anni Novanta, ha avuto l’idea per il suo onPony. Una piattaforma che fa incontrare persone che viaggiano (per lavoro, studio o piacere) con persone che devono spedire un oggetto e che non possono aspettare i tempi lunghi dei servizi postali, né permettersi i prezzi dei corrieri privati. Un principio simile a quello del fenomeno BlaBlaCar, che consente di offrire o cercare passaggi in auto a prezzi molto bassi.

Il vecchio pony express (ricordate il film con Jerry Calà?) si adegua alla sharing economy e diventa on demand. In teoria ci sono benefici per tutti: «Il cliente, colui che deve spedire qualcosa, risparmia circa il 50% rispetto alle tariffe dei corrieri. E il pony può ammortizzare un po’ le spese di viaggio», spiega Jasa, 26 anni, amministratore delegato, che con altri due fondatori, Stefano Bertocco e Andrea Bodrighi, ha appena lanciato onPony da Londra.

Nell’attesa che a giungo arrivi anche l’applicazione per Android e iOs, per ora tutta l’attività si concentra sul sito.

Ecco come funziona il servizio ONPONY:

Ci si iscrive linkando anche il profilo Facebook e possibilmente quelli di BlaBlaCar, LinkedIn e AirBnb. «In questo modo ogni utente è più trasparente, si possono vedere i feedback che ha già ricevuto su altre piattaforme e capire se è affidabile», spiega il Ceo. Una volta iscritti chi ha necessità di far recapitare un oggetto ne indica dimensioni, peso e destinazione e offre una remunerazione. Mentre chi sta per partire fa sapere dove sta andando, la data del viaggio e il tipo di pacco che può mettere in valigia (peso e grandezza). Se c’è un match il pony può accettare il compenso offerto oppure rinegoziarlo. Una volta che i due utenti si sono messi d’accordo si incontrano e l’oggetto in questione passa di mano.

«Sul sito abbiamo delle linee guida, consigliamo ai pony di verificare sempre personalmente cosa stanno per trasportare», sottolinea Jasa.
Appena il pony si prende carico del pacco viene generato un codice che attesta il passaggio di consegne. Un secondo codice viene creato quando il pacco arriva sano e salvo a destinazione. Quest’ultimo codice sblocca il pagamento che avviene tramite PayPal. Il cliente versa una quota a onPony che equivale al 10% della transazione. Non ci sono altri costi. Da maggio ci sarà anche una nuova opzione: si potranno fare consegne (o chiederne) anche all’interno della stessa città, non solo a lungo raggio. Infine i due utenti scrivono la recensione l’uno dell’altro che servirà per costruire la loro reputazione all’interno della comunità.

Sulla carta, molto semplice. Ma rimane il fatto che si affida un oggetto o dei documenti, potenzialmente importanti, a uno sconosciuto. Può bastare condividere il profilo Facebook per essere ritenuti credibili e affidabili? È questa la scommessa di onPony. E in verità di tutta la sharing economy. Inoltre rimane sempre la seccatura, per il cliente, di dover incontrare di persona l’utente fattorino per consegnargli il pacco. «Ma neppure chi offre un passaggio con BlaBlaCar ti viene a prendere sotto casa. E con AirBnb non puoi fare il check-in quando vuoi come in hotel», fa notare il Ceo. Insomma, l’economia della condivisione richiede qualche compromesso in nome del risparmio.

Per ora onPony ha trecento utenti iscritti e un centinaio di viaggi disponibili nel suo database (in Italia e all’estero). Ancora pochi per capire se funzionerà e se diventerà un fenomeno come i suoi predecessori.

Il servizio ha finora raccolto 160.000 euro di finanziamenti («da amici e amici di amici») e si sta apprestando a concludere un altro round da un milione di euro. I fondi andranno in parte nel marketing e nella promozione del sito che si concentrerà soprattutto sugli studenti Erasmus, la fascia di utenti che più di tutti potrebbe fare crescere la startup.

lunedì 24 aprile 2017

I robot che consegnano il cibo e poi tornano al ristorante (tra le strade di San Francisco)

Marble e Yelp Eat24 hanno iniziato una serie di esperimenti con un robot su ruote in grado di viaggiare autonomamente fino all’indirizzo del cliente.

Non esistono ancora norme che disciplinano l’uso dei robot per la consegna del cibo, ma le principali imprese del settore alimentare stanno vagliando varie possibilità. Yelp Eat24 ha iniziato una serie di sperimentazioni di consegna da parte dei robot, in alcuni quartieri di San Francisco, in collaborazione con Marble. Quest’ultima è un’azienda che ha sviluppato alcuni robot su ruote in grado di viaggiare autonomamente fino all’indirizzo del cliente. Queste macchine sono una via di mezzo tra un grande elettrodomestico e un rover, uno di quei veicoli spaziali adibiti all’esplorazione dei pianeti. Ordinare è molto semplice: attraverso il sito o l’app si può scegliere il cibo scelto e richiedere la consegna tramite robot. Attraverso un messaggio sul cellulare si ottiene un codice pin, che serve per sbloccare il carico da stiva del robot. Una volta consegnato il cibo il robot ritorna al ristorante.

Telecamere e sensori
Questi mezzi sono dotati di telecamere e sensori ad ultrasuoni, nonché di un supercomputer Jetson TX1 AI Nvidia, e sono in grado di percepire l’ambiente circostante. Possono funzionare sia di giorno sia di notte, e sfruttano l’alta risoluzione delle mappe 3-D dei marciapiedi, degli edifici e dei quartieri in cui l’azienda opera. Strutturalmente, l’intera sezione posteriore del robot può essere cambiata. Marble non ha ancora sviluppato questa funzione, ma prevede di avere il controllo della temperatura, trasformando i suoi robot all’occorrenza in frigoriferi o forni. Per ora, sono solamente “borse termiche” per mantenere caldo il cibo durante il viaggio a breve distanza, dal ristorante alla porta del cliente. Matt Delaney, CEO e co-fondatore della startup Marble di San Francisco ha detto: “Stiamo iniziando con i pasti, e abbiamo la speranza che i nostri robot saranno utili per tutto, dai generi alimentari, alla farmacia e alla consegna di qualunque genere di pacco. I robot sono progettati per rispettare tutte le regole di movimento in un contesto urbano”.

La partnership

Le recensioni di Yelp generate dagli utenti hanno a lungo influenzato l’attività di ristorazione, ma la società ha iniziato la consegna degli alimenti dopo l’ acquisizione di Eat24 nei primi mesi del 2015. La responsabile della consegna operazioni per Yelp Eat24, Shalin Sheth, spiega che oggi l’azienda lavora con circa 40.000 diversi ristoranti. La maggior parte di questi offre autonomamente il servizio di consegna, ma Yelp offre un programma di partnership che li collega con le flotte in grado di fornire loro cibo, se necessario. Anche per questo motivo la partnership con Marble è in gran parte sperimentale: “Le persone che hanno i ristoranti stanno cominciando ad informarsi. Quindi abbiamo bisogno di avere risposte, e dobbiamo capire ciò che funziona e cosa no”.

La concorrenza dei droni
Al momento Marble invia insieme al robot uno “chaperone” in carne ed ossa per le consegne. Questo avviene in parte per raccontare ai passanti curiosi cosa sta succedendo, ma anche per raccogliere feedback dalla comunità. Marble, che ha sviluppato i robot alla Lemnos Labs di San Francisco, sa di dover affrontare l’emergente concorrenza d’imprese che consegnano con il drone, come Flirtey, e nuove aziende per la consegna degli alimenti, tra cui figuara anche Uber, con la sue auto a guida autonoma e UberEATS, piattaforma di distribuzione alimentare.

martedì 18 aprile 2017

La startup (supportata da I3P) che mette in movimento pacchi e oggetti. Take My Things

Francesco Demichelis e Guido Balbis,
rispettivamente founder e co-founder di TakeMyThings
Francesco Demichelis e Guido Balbis hanno sviluppato un servizio di Social Transport dedicato agli oggetti. La piattaforma di trasporto condiviso ruota attorno ad un’app gratuita.

Take My Things è un startup che ha sviluppato una piattaforma per mettere in contatto domanda e offerta, chi deve trasportare un pacco e chi è disposto a farlo, e trovare una soluzione nel più breve tempo possibile. Take My Things ruota intorno ad un’app gratuita. Per usufruire del servizio basta inserire l’oggetto, l’indirizzo di presa e di consegna, la data e l’ora massima per la consegna, la cifra che si è disposti a pagare. Take My Things incrocia i dati, creando una rete in grado di soddisfare le esigenze di trasporto. Take My Things si è costituita come società a febbraio 2015, il lancio dell’applicazione è avvenuto a gennaio 2016. Dall’autunno del 2015 sono supportati da I3P, l’Incubatore di Imprese Innovative del Politecnico di Torino. Secondo i dati forniti da Take My Things, finora sono stati oltre 1.000 pacchi messi in movimento. Il team di Take My Things è composto da Guido Balbis, esperto di marketing e co-founder, Walter Chialva, esperto di sistemi IT, Pennella Fabio, che si occupa di marketing. E dal founder Francesco Demichelis. Proprio a Francesco StartupItalia! ha chiesto di entrare nel dettaglio del progetto.

Di cosa si occupa la startup?

«Take My Things è una piattaforma per il trasporto condiviso di oggetti (dai pacchi, ai documenti, fino alle chiavi). E’ un servizio veloce ed economico perché utilizza gli spostamenti che fanno i nostri utenti nella vita di tutti i giorni. E’ il primo delivery network».

Come è nata l’idea?

«Era il 31 dicembre 2014. Parto da Saluzzo per andare a passare la notte di Capodanno a Sanremo, sono le 15, arrivo a destinazione e ho dimenticato a Saluzzo le chiavi della casa al mare. Istintivamente cerco lo smartphone e mi chiedo “ci sarà un’app che possa mettermi in contatto con quelli che stanno partendo ora da Saluzzo o dintorni e che mi possano portare le chiavi in tempo per la serata?”. No, putroppo non c’era».



Come si è sviluppata la startup?

«Abbiamo costituito la società a febbraio 2015 e commissionato lo sviluppo del software a marzo 2015. A ottobre 2015 l’app era già negli store principali. Il 2016 poi lo abbiamo dedicato alla raccolta di utenti (a oggi circa 6/7000) presenti su Torino e quest’anno stiamo replicando su Milano l’esperienza fatta su Torino».

Come si sostiene la startup e quanto fattura?

«Fino ad oggi la startup si è sostenuta con i finanziamenti dei soci. A breve abbiamo in programma una campagna di crowdfunding. A oggi il servizio è gratuito e non si prevede fatturazione. Si inizierà a prevedere una fee sulle transazioni dal 2018».


Rapporti con le grandi aziende e partnership.

Abbiamo stretto accordi con alcuni partner, tra i quali Migastone (Società di servizi per le PMI) e Mercury By Bike (startup di piccoli trasporti last-mile son cargo bike in Torino).

I prossimi passi

«Procederemo nei prossimi 12 mesi e espandere il servizio a Milano, Perugia, Chieti, Teramo, l’Aquila».

Fonte: Alessio Nisi per Startupputalia.eu

sabato 15 aprile 2017

L’app per controllare gli interruttori da smartphone. Powahome vince il Wind Startup Award

Michele e Pasquale Longo con Federica De Sanctis: il team di Powahome
Il progetto (uscito dal programma di incubazione di Android Factory 4.0 a LUISS Enlabs) si è aggiudicato il contest per startup e idee di business promosso da Wind e l’Execution Program presso l’acceleratore romano.

Powahome è un dispositivo domotico che, inserito dietro gli interruttori, li rende smart. Consente infatti di controllare a distanza luci, prese e avvolgibili attraverso un’applicazione per smartphone. Il dispositivo permette, inoltre, di integrare i sistemi di controllo vocale con il proprio impianto elettrico. Proprio Powahome è il progetto (uscito dal programma di incubazione Android Factory 4.0 di LUISS Enlabs) che si è aggiudicato il Wind Startup Award, contest per startup e idee di business promosso da Wind e organizzato sulla piattaforma digitale Wind Business Factor, (oltre 70 i progetti candidati). La premiazione si è tenuta a Roma, a LUISS Enlabs, partner del Wind Startup Award. Powahome avrà la possibilità di partecipare all’Execution Program di LUISS Enlabs: 2 mesi di pre-accelerazione all’interno. I sette team finalisti, dopo 4 settimane di training e di mentorship, nel corso dell’appuntamento finale hanno presentato il loro progetto di business a una giuria di investitori e di business angels. Il founder e ceo Powahome è Pasquale Longo. Nel team anche Federica De Sanctis e Michele Longo. Nel corso dell’evento, è stato anche proclamato il vincitore del Wind Green Award, altro contest, promosso su Wind Business Factor e dedicato alle idee e alle startup che si occupano di innovazione sostenibile. Zemove, il team vincitore che promuove il car sharing sostenibile e social, ha ricevuto un premio in denaro e la possibilità di entrare nel programma di incubazione di Impact Hub Milano, partner dell’iniziativa.

Pronti per l’execution program

«Siamo davvero orgogliosi di aver avuto questo riconoscimento – hanno dichiarato i tre del team di Powahome – sono stati mesi di lavoro intenso, che ci hanno permesso di crescere professionalmente e, per questo, ringraziamo il percorso che Wind Business Factor ci ha consentito di intraprendere e i nostri mentor che ci hanno seguito e ci hanno “bastonato” quando sbagliavamo. Ora siamo pronti per l’execution program di LUISS Enlabs».

La sostenibilità ambientale come faro

Per i ragazzi di Zemove «essere arrivati fino al gradino più alto dei Wind Green Awards ci rende orgogliosi e ancora più decisi a proseguire questo meraviglioso viaggio. Zemove – hanno spiegato – è una startup giovane che ha come faro la sostenibilità ambientale e la condivisione di esperienze tra persone, attraverso un modo innovativo di muoversi in città. Questo riconoscimento è un ulteriore passo verso il futuro della mobilità sostenibile da noi immaginato, un futuro in cui è possibile collegare persone a luoghi con auto condivise, il tutto a Zero Emissioni. Siamo felici di aver ricevuto questo premio da Wind Business Factor e Impact Hub – hanno aggiunto – perché crediamo che i nostri valori siano coerenti con le idee che queste due grandi realtà portano avanti.I prossimi mesi di lavoro congiunto ci permetteranno di acquisire ulteriori competenze: siamo convinti che il team di Zemove abbia le basi per rivoluzionare la mobilità urbana».

FONTE: Alessio Nisi per Startupitalia.eu


mercoledì 12 aprile 2017

Google ha scelto (e formato, con Enlabs) 10 startup italiane per l’Industry 4.0

Prima di essere intercettate da Google, fino a 4 mesi fa molte di queste startup neanche esistevano, alcuni founders avevano l’idea ma non il team, altri avevano idee «demenziali» (Coppola dixit) e poi sono state «raddrizzate». Sono 10, operano nell’IoT e nell’Agritech. E… altro che Mvp, alcune di loro sono già sul mercato

“Così Enlabs diventa anche incubatore”. Sarebbe un buon titolo di riserva, se non fosse che dietro l’operazione Android Factory 4.0 vi è molto di più.

Il senso di un’incubazione fatta velocemente e bene

Vi è di più perché dietro, oltre a LVenture, c’è un nome pesante della digital economy globale: Google. Vi è di più perché è frutto di un challenge verticale su una delle grandi scommesse italiane (soprattutto di governo) dei prossimi anni, ovvero quello dell’Industry 4.0.

Vi è di più perché le 10 startup e idee d’impresa selezionate in giro per l’Italia (5 le tappe del roadshow di scouting e oltre 200 le candidature) non sono solo state formate e portate al “Gran Finale” di fronte a investitori, corporate e addetti ai lavori (molti i founders di altre startup presenti in sala): queste 10 nuove aziende italiane sono già oltre un Mvp, molte di loro, quasi tutte, hanno già stretto partnership per andare subito sul mercato, per iniziare a fatturare, a vendere i propri prodotti.

Prodotti che, manco a dirlo, sono stati pensati per essere Android-first, ovvero sviluppate intorno al sistema operativo aperto di casa Google. E se manterranno quanto promettono nei loro pitch, c’è qualche startup di cui sentiremo parlare a lungo.

Le 10 startup “made in (Google) Italy”

Le 10 startup che hanno presentato i propri progetti durante il Gran Finale a Roma (ieri, 11 aprile) operano in diversi ambiti dell’Industria 4.0 tra cui IoT, Smart Home e AgriTech e sono:

1. Beeing, che opera nel settore dell’apicoltura e ha creato strumenti che permettono di salvaguardare le api monitorandone gli spostamenti e lo stato di salute da remoto con l’app e di allevare il proprio sciame in città;

2. BiTrack, dispositivo per ottimizzare la gestione e l’utilizzo di risorse industriali, minimizzando la perdita e il degrado dei materiali, a basso consumo energetico, facile da utilizzare e accessibile da remoto tramite un’app;

3. BXTAR, che si occupa della sicurezza del ciclista urbano e ha sviluppato un sistema di segnalazione luminosa che comunica con l’app e modula la luminosità in base alla pericolosità della strada;

4. ElectricianCS, app che assiste gli operatori negli interventi sugli impianti elettrici/domotici mostrando zone di passaggio dei fili e di intervento, analizzando rapidamente le reti con l’Intelligenza Artificiale, individuando guasti e fornendo indicazioni in Realtà Aumentata;

5. In Time Link, che connette gestori di distributori automatici e clienti tramite un’app che permette di ricevere promozioni e notifiche su nuovi prodotti e variazioni di prezzo, effettuare acquisti, richiedere supporto, cercare prodotti e pagare;

6. Neeot, dispositivo per la raccolta e l’analisi in tempo reale di dati in un’area di interesse che garantisce una copertura di decine di chilometri con un’infrastruttura minima, a basso consumo e facile da istallare, fornisce indicazioni utili e attiva automazioni con l’intelligenza artificiale;

7. Pako, una cassetta postale innovativa che permette di ricevere e inviare la posta anche quando non è presente nessuno, aprendosi attraverso un pin che l’utente inserisce con i dati di spedizione quando effettua acquisti online, mantenendo altissimi standard di sicurezza;

8. PoWaHome, dispositivo che può essere inserito in autonomia nelle cassette dell’impianto elettrico esistente per aggiungere funzionalità smart a interruttori, prese, avvolgibili e sistemi di oscuramento motorizzati e permette il controllo da remoto tramite app;

9. Revotree, che ottimizza la gestione e i consumi nell’irrigazione monitorando parametri ambientali, dati e previsioni meteo e elaborando predizioni e tendenze con l’intelligenza artificiale. Si integra con impianti già presenti e permette il controllo via app;

10. Serially, piattaforma che raccoglie news sulle serie tv selezionate dalle più importanti fonti del web e permette agli utenti di ricevere segnalazioni personalizzate tramite l’app e ai produttori e distributori di serie tv di presentare in maniera coinvolgente e diretta le novità.

Di queste 10 startup 7 (Beeing, Bitrack, BXTAR, In Time Link, Neeot, Powahome e Revotree) sono state ammesse al “Selection Day” di Luiss Enlabs, l’evento in cui saranno selezionate le startup che parteciperanno al prossimo programma di accelerazione di Luiss Enlabs.
Coppola (Enlabs): «nel mondo finanziata solo 1 startup ogni 100»

Anchorman del demo day di queste 10 startup debuttanti è stato il direttore del programma di accelerazione di Enlabs, Augusto Coppola, che nel suo speech introduttivo ha ricordato la differenza (sostanziale) tra acceleratori e incubatori, con una metafora: «L’incubatore è quel posto dove l’uovo diventa pulcino, l’acceleratore è dove il pulcino viene riempito di vitamine e portato a diventare polletto». Il problema vero, però, secondo Coppola è che le startup alle prime armi non riescono ad attrarre investimenti perché, molto spesso, non riescono a farsi “comprendere” dagli investitori. Anche per questo «in tutto il mondo la quantità di progetti e startup finanziate è dell’1,5 per cento», ha detto il direttore di Enlabs.

Certo è che a Coppola e al suo team va dato atto di aver selezionato prodotti di grande qualità. Magari non tutte sono startup destinate all’exit, ma sicuramente a fatturare, attrarre nuovi clienti (non solo in Italia ma in tutto il mondo) divenire presto delle Pmi innovative.
Ciulli (Google Italia): «puntiamo sull’Industria 4.0»

Ma fatturare e attrarre nuovi clienti è prima di tutto un mind-set. Un concetto reso molto bene da Diego Ciulli, Public Policy Manager di Google Italia, il quale rivolgendosi alle startup presenti durante il suo speech ha ripreso una metafora da lui già utilizzata durante le 5 tappe del roadshow di selezione: «pensate come se foste delle micro-multinazionali». «C’è un Paese che può stare nell’onda dell’innovazione giusta», ha continuato il manager Google. «E quell’onda in questo momento per l’Italia è l’Industry 4.0».

Fonte Aldo Pecora per startupitalia.eu

Come si fa il pitch perfetto

Presentarsi agli investitori oppure anche soltanto a un programma di accelerazione non è un gioco da ragazzi: non basta presentare un'idea. Ecco come dovrebbe essere il pitch perfetto per una startup

TORINO - Per chi vuole fare startup il pitch è uno dei primi scogli da superare. Il tempo scorre inesorabile, le lancette sull’orologio sembrano muoversi più velocemente di quanto accada nella normalità: lo startupper ha davvero pochissimo tempo (in linea di massima 3-4 minuti) per esporre la sua idea e fare in modo che risulti vincente. Ma come si fa il pitch perfetto?

Cos’è un pitch
Innanzitutto la parola pitch non è altro che la diminuzione della locuzione inglese «elevator pitch» ossia «lancio sull’ascensore», una locuzione che ben si addice alla natura incontaminata della startup. Sembra semplice, in fin dei conti è come dare un esame all’università davanti a una commissione, no? Non esattamente, perché, nell’elaborazione e presentazione di un pitch ci sono alcune fondamentali regole da seguire e che permettono di rendere la propria idea più appetibile a qualsiasi business angel o programma di accelerazione che sia intenzionato a prendervi sotto la sua ala.

Come si realizza il pitch perfetto
Si parte dal problema: l’abbiamo detto molte volte. E’ necessario portare all’attenzione di chi ascolta qual èl’effettiva esigenza che intendete risolvere e soprattutto, il numero più preciso possibile di persone che hanno quel problema e quindi quel bisogno. Il vostro mercato, infatti, sarà costituito potenzialmente proprio da queste persone. Il terzo step è costituito dall’idea e quindi dalla soluzione che avete trovato per risolvere quel determinato bisogno. In quarta battuta è necessario presentare nel dettaglio il processo di sviluppo dell’idea, cioè come intendete realizzare il vostro progetto e soprattutto in quanto tempo. Un pitch deve necessariamente indicare il modello di business che la startup intende seguire. Dovete far capire nel dettaglio come l’ipotetica impresa starà in piedi, quindi come produrrà il proprio guadagno. Non preoccupatevi di essere «umili», portate cifre precise e dati che validano il vostro modello di business. Chi vi dà dei soldi (o comunque un contributo di qualsiasi tipo) vuole sapere come e in quali quantità questi fondi potranno ritornagli indietro. Un altro tassello importantissimo di un pitch è il team: alcuni sostengono addirittura che, nella presentazione del progetto, l’informazione relativa alla componente umana della startup, persone e loro rispettivi ruoli, vada presentata ancor prima del modello di business e questo perché, come abbiamo detto più volte, l’incompletezza o lo smembramento del team è una delle principali cause di fallimento precoce di una startup. Prima di presentarvi a un pitch assicuratevi che la vostra squadra sia completa e che tutti i profili necessari siano ricoperti in modo adeguato.

Il vantaggio temporale e il capitale
Per rendere il vostro progetto appetibile dovete eliminare qualsiasi barriera d’ingresso. Questo tendenzialmente si traduce nel vantaggio temporale che la startup ha rispetto ad altre, ovvero quanto può essere veloce il processo di sviluppo dell’idea prima che qualcun altro arrivi a formulare un progetto analogo. A livello concreto si traduce in quanto tempo il team è in grado di produrre massa critica ed entrare sul mercato. Più è veloce il processo di sviluppo, più avete possibilità di aver successo. Un pitch può essere fatto sia per presentarsi a un programma di accelerazione sia per ottenete fondi. In quest’ultimo caso è necessario specificare non tanto quanti soldi servono, ma soprattutto per cosa servono. Molti startupper tendono a chiedere fondi per lo sviluppo dell’idea, mentre dovrebbero destinare una percentuale considerevole di questi fondi per attuare al meglio strategie di marketing. Non è un gioco da ragazzi, preparare il pitch perfetto è una cosa seria: va studiato e curato nei minimi dettagli. E soprattutto, dev’essere veloce: cercate di non superare mai i 3 minuti. Dimostrerete non solo capacità di sintesi, ma soprattutto di aver ben chiaro chi volete raggiungere e come.

A Parigi sorgerà Station F, il più grande campus di startup del mondo

Il magnate svizzero Xavier Niel è inarrestabile. Dopo aver acquisito il 15% di Telecom e aver fondato la Scuola 42, un istituto gratuito e innovativo dove gli studenti vengono selezionati solo sulla base del talento e della motivazione, ora è la volta di Station F, che ha proiettato Parigi e la Francia in prima linea sulla scena digitale globale. L’apertura di Station F avverrà a giugno. Il progetto lo renderà il più grande campus di startup del mondo. Fondato da Xavier Niel nel 2013 e diretto da Roxanne Varza, ospiterà mille startup. Alcune parteciperanno al Programma Fondatori e pagheranno 195 dollari al mese per l’affitto di una scrivania, ma la stragrande maggioranza si trasferirà lì grazie a un partner: Facebook , Vente-Privée, Zendesk e una dozzina di altre aziende tecnologiche stanno per affittare un piccolo pezzo del palazzo per “affidarlo” ai giovani startupper.

Dall’ex stazione merci a campus
L’elegante scheletro in cemento è ancora nudo, ma da giugno ci saranno 3000 postazioni di lavoro, spazi per eventi, un auditorium e ristoranti. Ci saranno aziende, avvocati, commercialisti, un ufficio postale. L’idea è quella di provvedere a tutto il necessario all’interno dell’edificio, in modo da non avere mai la necessità di uscire. Lo spazio in cui sorgerà Station F fu inaugurato nel 1929, era una stazione merci a ridosso della stazione di Austerlitz. Intorno agli anni 2000 viene quasi abbandonato, un fantasma urbano sulle rive della Senna. Station F lo ha resuscitato in pochi mesi: le sue tre navate fatte a vetri donano luce e aria. Ai lati sono posizionati degli eleganti cubi, adagiati ai fianchi di queste gallerie che si estendono per 34 mila metri quadrati di grandezza. Nel seminterrato, file interminabili di armadietti, docce e servizi igienici. Come parte del progetto, Station F sta ristrutturando due edifici vicini che offrono alloggi sociali per 800 persone che sono in qualche modo legate al campus e prevedono di aprire nel 2018.

Silicon Valley Indoor
«Il progetto è quello di ricreare una Silicon Valley Indoor» ha detto la portavoce Rachel Vanier, che da mesi riceve le visite di delegazioni estere. Cinesi, americani, indiani e tutti gli europei sono venuti a vedere la sfida folle di Xavier Niel, che ha investito nel progetto 250 milioni di euro. Il tutto sotto la guida di un team internazionale, guidato da Roxane Varza, ex TechCrunch Francia e Microsoft Ventures. Station F sarà “il” luogo in cui l’Europa tecnologica e digitale potrà riunirsi. Mounir Mahjoubi, l’ex presidente del Consiglio nazionale per lo sviluppo digitale francese, ha commentato: «La forza del progetto è la sua dimensione. Station F è un ecosistema in sé. Non stiamo parlando di un campus, si parla di una sorta di città digitale del futuro».

La città che non dorme mai
A dimostrazione di quanto afferma Mahjoubi, la “città” sarà divisa in tre “quartieri”. Il primo, con una caffetteria e un auditorium con 400 posti a sedere, sarà l’agorà di Station F. Il secondo, riservato alle startup, sarà il suo alveare creativo, dove diversi grandi spazi saranno affittati da terzi, mentre il resto sarà occupato dagli animatori dei progetti selezionati, più di mille persone. Il terzo quartiere sarà la piazza del paese di Station F, con i ristoranti aperti 24 ore su 24 e 7 giorni su 7. Una volta aperto, non si chiuderà mai: «Questa città vivrà giorno e notte». Il mondo delle startup è avvertito.

Fonte Startup.eu

lunedì 10 aprile 2017

Da blog a Startuppa con noi. Paolo De Nadai: «Vi racconto i 10 anni di ScuolaZoo»

La Business Factory che vuole essere punto di riferimento dei Millennials e dei ragazzi della Generazione Z compie 10 anni e lancia un programma per individuare e selezionare nuovi Business Mate. Ne parliamo con il founder e CEO di OneDay Group.

Com’è iniziata l’avventura di ScuolaZoo è scritto un po’ dappertutto. All’inizio, nel 2007, fu un blog. Oggi, dopo 10 anni tondi tondi, quel blog è diventato OneDay Group: 10 milioni di euro di fatturato a fine 2016, un team di 62 persone (guidato da Paolo De Nadai, Francesco Nazari Fusetti e Betty Pagnin) un film, una community, quella di ScuolaZoo, che conta 2,7 milioni di fan su Facebook e oltre 2,3 milioni di utenti unici sul sito. E tante altre cose. Ora anche Startuppa con noi, un programma di accelerazione per startup. Diverso, certo. Come è speciale tutto quello che passa per ScuolaZoo. Speciale perché nasce dalla volontà di ascoltare Millennials e i ragazzi della Generazione Z e intercettarne desideri, bisogni, aspirazioni. Ecco sì, i dieci anni di ScuolaZoo diventano l’occasione e il pretesto per tirare un po’ una linea, azzardare un bilancio e dare uno sguardo ai nuovi progetti e perché no? Anche al futuro. Per questo StartupItalia! ha incontrato proprio Paolo De Nadai. Ecco cosa ci ha detto.

Paolo, 10 anni di ScuolaZoo.

«Il primo termine, che non è poi solo una parola, che i viene in mente è passione».

Come si cercano e si conquistano nuovi traguardi?

«Abbiamo iniziato con un blog. Poi sono arrivati la pubblicità, l’ecommerce, il diario (che a oggi è il terzo più venduto in Italia), i viaggi evento e ora l’incubatore. Nel corso di questi anni il modello di business si è evoluto. ScuolaZoo è una realtà che cresce ogni anno. E’ fisiologico avere nuovi stimoli. Facciamo sempre cose nuove in aggiunta a quelle attuali».

L’asset segreto di ScuolaZoo.

«La vicinanza ai ragazzi e la nostra capacità di stare su più media. Non siamo solo una community online, ma anche fisica, con eventi dentro le scuole, con i viaggi evento. Una varietà veramente importante».

Per ragazzi, cosa intendi?

«Millennials, ma non solo. Tre quinti dei ragazzi delle superiori non sono Millennials, ma membri della Generazione Z. Il nostro gruppo parla a entrambi».

In che modo?

«I Millennials sono cresciuti e per questo abbiamo sviluppato SoS studenti, un sito dedicato agli universitari, e la sua controparte fisica per viaggi in giro per il mondo. L’ultimo brand che abbiamo acquisito è Sette in condotta, dedicato ai ragazzi delle scuole Medie, un diario scolastico che fa 70 mila copie. L’abbiamo acquisito con l’idea di dare un’anima digitale a questo diario storico».

Paolo, come sono cambiati i ragazzi in questi 10 anni?

«Sono cambiati tantissimo. Come ScuolaZoo, che inizia come un blog, poi diventa un sito. Poi ancora arriva Facebook, dove ci sono anche i genitori dei ragazzi. Che a quel punto si spostano su Instagram. Alla fine WhatsApp. E se guardo alla finestra di ogni media, mi rendo conto è sempre più breve».

I nuovi progetti di OneDay.

«OneDay è sia azienda che business factory e vuole essere il compagno di business di quante più realtà e community diverse. Per questo abbiamo lanciato sul nostro sito Startuppa con noi, una sezione dedicata ai ragazzi che cercano un business partner. Oltre al capitale diamo anche supporto per la crescita in termini di amministrazione, ufficio stampa».

Da quando è online Startuppa con noi?

«Startuppa con noi è andato online circa 2 mesi fa e abbiamo già ricevuto 5 candidature. Vogliamo offrire ai progetti innovativi non solo supporto finanziario, ma anche operativo».

Startuppa con noi è una call per startup, ma non ha scadenza. Paolo ci dai altri particolari?

«E’ una selezione particolare. Oltre al format dell’application, chiediamo ai ragazzi di registrare un video selfie in cui si presentano, in modo unconventional. Io stesso ho registrato un video selfie per presentare il progetto».